La carne coltivata del soggetto automatico
Inizio queste note con La Stampa del 26 gennaio tra le mani. Il giornale a pagina 21 declama, con richiamo in prima: «L’intervento [di] Carlo Petrini: Perché la carne “sintetica” può salvare il Pianeta». Già in una precoce versione di queste note lo indicavo come “titolo sguaiato”: la differenza tra questo e il contenuto saltava agli occhi. Ora rivedo gli appunti con davanti a me il numero di domenica 28 dello stesso quotidiano. Qui il redattore, per conto della testata, si straccia il cardigan per il titolo di due giorni prima e accoglie le lamentele di Petrini in una lunga intervista, che inizia con un «Ma che avete fatto?», in riferimento al titolaccio, e culmina nella dichiarazione di Petrini di un «No assoluto» all’uso alimentare della carne coltivata.
Sgombrato il campo dal titolo, ciò che dice Petrini è interessante, a tratti rivelatore, spesso del tutto sbagliato. Petrini è preoccupato dal «muro contro muro» sulla carne coltivata, dice la sua «perplessità» per il «divieto tout court» emesso dal governo, e dà voce alla necessità di non ostacolare «in alcun modo» la «ricerca scientifica». Con formulazione involuta Petrini sembra far riferimento alla ricerca scientifica di eventuali danni alla salute causati dalla carne coltivata; ma il concetto del non ostacolare la scienza (ovvero concedere un nihil obstat preventivo) è decisamente a doppio taglio. Assai scientifica è anche, infatti, l’organizzazione dei macelli; lo stesso può dirsi della vertiginosa «perdita di biodiversità» delle razze animali, che Petrini denuncia nello stesso articolo, che è l’altra faccia di una selezione genetica fattasi via via, appunto, sempre più scientifica; la sfrenata logistica della carne industriale utilizza tecnologie aggiornate alle più recenti acquisizioni scientifiche (per esempio le tecnologie satellitari); e allo stesso modo è assai scientifico il transgenico; e scientificissimi, letteralmente da Nobel, sono i nuovi Ogm non transgenici, i Tea, cuciti con Crisp-Cas9. Altrettanto avventato, poi, il «resto a guardare» di Petrini nell’intervista a proposito dell’«eventuale uso medico» della carne coltivata, espresso contestualmente alla condanna dell’«uso alimentare», si direbbe quasi per controbilanciare quel no assoluto. Credevo fosse chiaro anche ai ciottoli che il pretesto dell’«uso medico» è il passe-partout per ogni pretesa ipertecnologica sulla vita biologica; ma evidentemente così chiaro non lo è; oppure non lo si osa dire.
Ciò che è forse ancor più meritevole di riflessione, è che Petrini, come tanti altri, sembra cedere al più basso ricatto operato della carne coltivata: quello d’imporsi come alternativa all’industria della carne macellata. Si tratta di un procedimento consolidato nella società integralmente capitalistica in cui ci tocca vivere: un’alternativa di esistenza, di convivenza, di alimentazione sembra emergere solo quando dimostra la sua capacità di tradursi in merce. In altre parole: non sappiamo neppure più immaginare un modo per uscire dal male degli allevamenti industriali, se non tramite il potere redentivo di una merce, la carne coltivata.
Questa alternativa – finta, “infernale” – finisce per coprire tutto il dicibile e sequestrare tutto ciò che può essere legittimamente discusso. Dire, per esempio, che tantissime persone già ora respingono come intollerabili gli allevamenti industriali, ma pure non desiderano in alcun modo la carne coltivata – ecco, dire questa semplice verità già suona come una mancata adesione alla prospettiva salvifica di merce; già sembra di una tiepidezza ingiustificabile, a fronte della mostruosità conclamata degli allevamenti industriali.
Nel capitalismo interamente realizzato le alternative si presentano dunque sempre come alternative tra merci; e va da sé che tra la semplice rinuncia a una merce e la sua trasformazione in un’altra merce vinca sempre la seconda. Ciò che è vendibile scaccia sempre ciò che è giusto, ma non facilmente monetizzabile. Il ceto progressista urbano si dimostra il meglio integrato in questa forma mentis; così, di fronte al titolaccio de La Stampa di venerdì, subito qualcuno s’incarica di telefonare alla rassegna stampa di Radio 3 per dichiarare di essere d’accordissimo con Petrini (e cioè col titolo che Petrini sconfesserà integralmente), denunciando quanto “di destra” e inesplicabile sia la contrarietà alla carne coltivata; e dandosi ragione a vicenda col conduttore, nella fattispecie Duccio Facchini di Altreconomia (qui, dal minuto 31 e dal minuto ‘44). Viene qui evocato il coagulo di interessi raccolto attorno alla carne macellata, e ciò certamente con ragione; ma si trascura di dare spazio adeguato al fatto che anche attorno alla carne di laboratorio si vanno addensando appetiti, brevetti, investimenti di soggetti imprenditoriali meritevoli di maggior scrutinio. Guarda caso, quei brevetti sono particolarmente numerosi in paesi ricchi e spregiudicati in agricoltura (Usa, Australia, Cina, Canada…): anche questo sarebbe un interessante punto da analizzare, riuscendo a togliersi le lenti a contatto color rosa.
Come in ogni altra alternativa infernale, non c’è solo solo una parte ricattatoria, ma anche una propositiva. La prima ci indica il male degli allevamenti intensivi, come se non esistesse al mondo altro modo di nutrirsi che tramite i loro prodotti; la seconda ci apre una prospettiva di bene del tutto illusoria. È la promessa, evocata da alcuni, che l’affermarsi della carne coltivata libererebbe le terre dal gravame del foraggio per la zootecnia industriale, rendendole disponibili per una migliore alimentazione umana. Solo una totale incomprensione dei meccanismi del capitalismo consente di pensare qualcosa del genere. Posto che la carne coltivata si diffonda davvero a quel punto, i terreni liberati dal foraggio saranno semplicemente resi disponibili per la prossima più impellente avventura del capitalismo, e non per altre forme e necessità umane estranee alla valorizzazione capitalistica. Il passato lo dimostra più volte. Quando per esempio l’autorivoluzione green più titolata erano i biocarburanti, fu sottratta per produrli, e senza tanti complimenti, una porzione considerevole di terre all’alimentazione umana: per colture di mais-da-serbatoio nelle Americhe; di colza qui in Europa. Perché questa volta dovrebbe andare altrimenti?
Sembra che si ignori del tutto che il capitalismo procede come soggetto automatico, e man mano che si impone in ogni aspetto della vita si emancipa sempre più apertamente da esigenze coscienti umane. La forza di una pietà fattiva nei confronti degli animali condannati a vita e morte industrializzate; la capacità di mantenere la terra libera da colture dannose ed esigenti: tutto questo è (dovrebbe essere) atto della nostra coscienza. Affidarci alla merce, sperarvi rendendoci impotenti, finire ineluttabilmente per pregarla di indirizzare la propria traiettoria dove noi vorremo: sono questi gli atti di una fuga dalla responsabilità che abbiamo in quanto umani, in quanto dotati di coscienza. Una fuga che, oltre a essere vile, è anche inutile, e prove ne abbiamo a non finire.
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